scenografia

Abbiamo stabilito che Àbito avrebbe dovuto ambientarsi all’interno dello spazio di prove, un salotto di quattro metri per quattro all’interno di un appartamento privato, agli albori della ricerca. Quando Àbito non si chiamava ancora Àbito.

Siamo passati da un salotto come tanti con tappeti, divani, lampade e mobili, a una stanza vuota. Solo pavimento e pareti.
Abbiamo lavorato per più di un anno all’interno di quella sala vuota.

La scenografia quel primo anno l’abbiamo solo disegnata attraverso schizzi e bozzetti su fogli di carta e modellini di cartone.
Non ci serviva ambientare le scene all’interno di un salotto.
Ci bastava ESSERE all’interno di quel salotto.

Poi a un certo punto, schizzi e bozzetti alla mano, abbiamo creato una parete di legno e abbiamo steso il tappeto danza nero sul pavimento di piastrelle.
Abbiamo costruito una “parete-fondale” con porte e finestre attraverso cui noi due attori potessimo entrare e uscire per i cambi d’abito e di scena.
Una parete che fungesse anche da “quintaggio” come nel più classico dei teatri.
Una parete che rendesse il pubblico spettatore di un interno domestico.
Dove sbirciare dietro il vetro di una finestra.
Dove origliare dialoghi e monologhi bisbigliati dietro a una porta socchiusa.
Dove essere testimone dei riti della vita quotidiana, domestica, di una coppia.

La scrittura drammaturgica è sempre stata caratterizzata da un moto circolare dove racconto, narrazione, scenografia, abiti e musiche si intrecciavano contemporaneamente.
Così la scenografia si è legata al tema dei costumi, la comunità degli Amish di ispirazione per gli abiti (vedi diario n°4).
Gli Amish sono votati ai molti lavori pratici che svolgono e in Àbito si lavora tutto il tempo, c’è poco spazio per le penniche sul divano.

Abbiamo così iniziato a raccogliere oggetti di uso domestico.
Che parlassero del lavorìo del vivere quotidiano.
Perchè il vivere quotidiano è un mestiere faticoso.
Appoggiandoli per terra potevamo vedere quegli oggetti aumentare di giorno in giorno fino a farne delle vere e proprie collezioni.
Ognuno di quegli oggetti ci parlava dei nostri personaggi, Olei e Caduto, così affaccendati nel proprio vivere quotidiano.

Dopo averli raccolti abbiamo creato un vero e proprio mosaico per terra.
Alla ricerca di un’estetica tridimensionale li abbiamo appesi con ordine, il nostro, quasi maniacale andando a creare una parete molto colorata con oggetti di forme, di colori, di consistenze, di grandezze, di storie di vita molto differenti ma con un unico denominatore:
TUTTI ERANO STATI USATI in una casa, avevano ABITATO altrove.               
La scenografia è così divenuta una scultura.
Un salotto metafisico, allusivo, altro. Disposto su un piano verticale, a ribaltare l’idea di realtà come a voler raccontare un sovrapporsi di piani, quello reale e quello onirico.

È rimasta cosi composta per giorni.
Le forme erano perfette, il colore no.
Abbiamo prima carteggiato, poi dato l’aggrappante, diverse mani di colore, acrilico, tempera e pigmenti naturali.  
Per alcuni oggetti abbiamo usato la tecnica dell’affresco usando sabbiature e calce.
Per altri, abbiamo usato la cementite, delle colle e resine.
Per i tessuti diversi bagni con ammollo durati giorni e poi colla per indurirli affinché le stoffe diventassero materiche.
Ci sono volute diverse settimane affinché il lavoro, la scenografia, fosse completa.
Abbiamo virato ogni singolo oggetto al bianco avorio.
E abbiamo tinto di nero la scenografia attraverso lo studio delle luci.
Ma quella delle luci è un’altra storia.